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Faccio odontoiatria pediatrica… non pratico la tortura


F. ha quattro anni e mezzo, viene in visita inviato dal pediatra perché ha dolore (alla buon’ora, visto che ha tutti i molaretti cariati! 🙁  ).
Il piccolo si dimostra subito un osso duro, è diffidente e furbetto, alterna momenti di misurata collaborazione a momenti di gioiosa, totale chiusura.
E’ un bambino sicuro, non piange, abituato a mercanteggiare. Quando cerco di metterlo alle strette, si gira verso la mamma con occhioni cuccioli e con una vocetta flebile le fa:
-Ma io non voglio…
Riusciamo, comunque, a fare una visita decente e anche una radiografia ai dentini che fanno male.
Alla mamma hanno detto che a quest’età i bambini vengono curati solo in anestesia generale.
Certo, è una delle possibilità, ma non è detto che sia l’unica.
Le spiego il piano terapeutico, le priorità, le varie possibilità di cura, dall’approccio psicologico alla sedazione cosciente, le difficoltà che potremmo incontrare.
Facciamo una lunga conversazione sulle abitudini alimentari, sull’igiene orale, cerchiamo di capire insieme cosa si deve migliorare.
Il piccolo, intanto, ci guarda sornione, poi mi porta un pupazzo da visitare:
-Come si chiama lui?
-Scrat
-Eh…ma come si chiama?
-Scrat. Il suo nome è Scrat.
-Ah…E come si chiama?
-Come lo vuoi chiamare?
-SCOIATTOLOOOO.
Visitiamo insieme Scoiattolo e poi lo congedo.
Durante il primo appuntamento, F. conferma la prima impressione: è davvero un tipetto tosto.
La mamma appare un po’ sconsolata e mi racconta che la sera prima ne ha parlato con degli amici, i quali le hanno detto:
-Perchè non lo porti dal Dott.XXX? Ha due assistenti che lo immobilizzano e te lo cura.
Ah ecco! Per curare i bambini bastano due assistenti nerborute che li immobilizzino.
Al caro Dott. XXX vorrei dire che in realtà neanche servono le due assistenti, perchè esistono, volendo, dei sistemi di immobilizzazione con cinghie.
Però vorrei anche chiedergli come pensa di far sedere la seconda volta il bambino in poltrona, visto che di denti da curare ne ha almeno otto e poi vorrei chiedergli come si sente con la sua coscienza al pensiero che una certa percentuale di bambini trattati in questo modo sviluppa una forma di fobia odontoiatrica che potrebbe pregiudicarne per sempre lo stato di salute?
E già che ci sono vorrei chiedere agli amici della Signora se davvero pensano che immobilizzare un bambino per curare delle carie, con tutto quello che ne deriva in dolore e paura, sia una strada percorribile e da consigliare?
E per non lasciare fuori nessuno, vorrei anche chiedere ai pediatri che inviano i bambini dal dentista solo dopo che i denti iniziano a fare male, se non si sentono complici di un tale scempio.
Qui non parliamo del pianto, i bambini piangono anche solo per paura o frustrazione. Parliamo di prendere un bambino, tenerlo seduto con la forza, aprirgli la bocca con la forza, tenerlo immobile e fargli l’anestesia, usare strumenti rotanti, fare delle otturazioni…con la forza.
Alla mamma che ha difeso la sua scelta di portare il figlio da me, che faccio odontoiatria pediatrica e non tortura, vorrei dire:
-Coraggio, ce la faremo.
E se proprio non ce la faremo con le buone, allora sì, piuttosto, lo facciamo dormire…
Altro che assistenti che immobilizzano…
Ma pensa te…
Perchè non le teste di cuoio o la SWAT a questo punto?

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Il sorriso di M.

M. è una bambina bellissima, ha tre anni e mezzo e non sorride mai mostrando i denti, neanche se glielo chiedi per favore. Quello che porta in giro per il mondo è un sorriso a labbra serrate, perché a scuola la prendono in giro per i suoi «dentini marci».
I bambini, si sa, sanno essere spietati. Meravigliosi, ma spietati.
M. ha solo tre anni e vuole i denti belli, con una motivazione da adulta, sopporta tutte le cure con pazienza (adulti, inchinatevi!): devitalizzazioni, otturazioni e finalmente la ricostruzione di quei dentini davanti che la fanno tanto soffrire.
Finito il lavoro, la porto davanti allo specchio e lei si osserva con aria critica che fa tenerezza.
Poi, il miracolo che riempie di lacrime gli occhi di mamma e di orgoglio il mio.
Salta, balla, batte le manine, inondando lo studio di luce…e sorride.
Finalmente sorride.

Egina Gnoni

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Il gioco del pappagallo

La prima volta viene con la mamma.
Si guarda intorno spaventato e, appena lo saluto, scoppia a piangere.
Cerco di coinvolgerlo, gli spiego cosa faremo, e lui fissa implorante la madre, sperando forse che lo prenda in braccio e si dia alla fuga.
Ogni tanto, però, mi guarda di sfuggita, so che sta ascoltando.
Gli spiego le regole: qui comandano i bambini, la tua mano sinistra è la mano del potere…
Mi guarda diffidente, ma almeno ha smesso di piangere.
Gli mostro gli strumenti, e mi permette di guardare i denti con lo specchietto: ha una fistola, dovremo fare una terapia canalare.
Intanto continuo a mostrargli gli strumenti, gli scompiglio i capelli con la siringa dell’aria, ride, gli faccio provare lo spray dell’acqua.
– I miei strumenti sparano tutti un sacco d’acqua, perchè i vermetti dei denti la odiano. Per non fartela bere tutta, noi la succhiamo con una speciale cannuccia.
Indico l’aspirasaliva, ma anche se lo avverto del rumore, si spaventa e ricomincia a piangere.
Fra i singhiozzi ammette disperato che ha “troppa, troppa paura”.
– Facciamo il gioco del pappagallo?
Mi guarda incuriosito
– Tu prendi questa cannuccia, io prendo l’altra. Tu guardi, poi ripeti quello che faccio. Se lo faccio anch’io non sarà così terribile no? Sei pronto?
Mettiamo l’aspirasaliva sulla lingua, poi sotto, poi sulla guancia, poi “chiudi la bocca come per bere una bibita”, le guance vibrano e lui scoppia a ridere.
Alla fine, dopo una lunga spiegazione sul funzionamento dell’ortopantomografo, riusciamo a fare anche la radiografia panoramica.

La seconda volta viene con il papà.
Dobbiamo iniziare la cura, ma non vuole saperne di aprire la bocca perchè ha di nuovo “troppa,troppa paura”.
Di nuovo lacrime, di nuovo singhiozzi…questa volta le spiegazioni sembrano non aver alcun effetto.
– Facciamo una pausa. Fuori c’è una bambina che sta aspettando di fare la visita, come te l’altra volta. Se lei è d’accordo, ti va di aiutarmi a spiegarle in che consiste?
Andiamo in sala d’aspetto a chiamarla. Mi presento. Lo presento.
– Può restare con noi?
La bambina accetta dubbiosa e si lascia accompagnare alla poltrona da un piccolo cavaliere di otto anni!
Lui la rassicura, le descrive tutti gli strumenti, anche l’aspirasaliva “che fa solo rumore” e dice che anche lui ha fatto la radiografia.
Le dice che prima aveva “un po’ paura”, ma che ora “no, non ne ha più”.
– Dottoressa?
– Dimmi.
-Posso fare il gioco del pappagallo con la mia amica?
Mentre parlo con i genitori della bimba, guardo i due ragazzini che, ridendo, fanno un giro di giostra con gli aspirasaliva.
Quando la bambina va via, gli chiedo “Allora, lo vogliamo pulire un pochetto questo dentino?”
– Mi prometti che quando alzo la mano, ti fermi e che fai piano?
– Certo, te lo prometto.
Non ha più pianto ed alla fine, al momento di salutarci, quando mi sono chinata verso di lui per complimentarmi, mi ha abbracciata.
In quel sorriso, in quell’abbraccio, nell’attimo di esitazione che li ha divisi, in quella decisione improvvisa e spontanea di regalarmi fiducia e affetto sta tutta la differenza fra essere una dentista e essere la dentista dei bambini.

Egina Gnoni